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Buio - Anna Kańtoch - copertina
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Buio

Descrizione


Dimessa da un sanatorio sul Baltico nel 1935, una donna senza nome giunge a Varsavia, accompagnata dal fratello maggiore Franciszek, per lasciarsi alle spalle il passato e iniziare una nuova vita. Eppure, tra i colori, i suoni e il chiacchiericcio dei caffè, i ricordi riaffiorano sempre più pressanti, riportando la protagonista al 1914, a Buio, l'unico luogo dove vorrebbe tornare: l'amata tenuta dove ha trascorso l'infanzia, e che è stata lo scenario della misteriosa morte dell'attrice Jadwiga Rathe, musa-amante del padre. A poco a poco i dettagli si sommano, i piani temporali si mescolano e si intralciano in un crescendo di dubbi, sospetti, rivelazioni, convergendo in un'unica, scioccante verità. Con una scrittura elegante e sinuosa, Anna Ka?toch ha costruito un romanzo audace, torbido e ipnotico che richiama le atmosfere di Irène Némirovsky, Thomas Mann, Anaïs Nin. Una storia di iniziazione sessuale che è anche un vertiginoso viaggio nei recessi della memoria; un labirinto psicanalitico che seduce e confonde, fino a spingerci ad accettare l'impossibile.
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Dettagli

2020
29 ottobre 2020
Brossura
9788832278118

Voce della critica

Siamo nel 1935. Una donna di cui non scopriremo mai il nome sta per essere dimessa da un sanatorio sulle rive del Mar Baltico. Non ci è dato sapere l’esatto motivo del suo ricovero, né la terapia che ha seguito per ottenere il via libera dai medici. In questa casa di cura, che ricorda per atmosfera quella del film A cure for wellness (2016) di Gore Verbinski, tutti si adoperano per far sentire gli ospiti a proprio agio, come se fossero vacanzieri invece che pazienti; è dunque un luogo in cui, tra urla contenute e tintinnii di tazze da tè, predomina l’apparenza.

Ma la nostra protagonista e narratrice in prima persona, che sarà presto accolta dal fratello maggiore Franciszek a Varsavia, ha un solo pensiero fisso: come la premonizione di un destino già segnato, sente imminente il ritorno alla tenuta di campagna della sua infanzia, Buio, dove durante un’estate di molti anni prima, quando lei era ancora una bambina, fu uccisa l’attrice Jadwiga Rathe, ospite della famiglia per quell’afoso weekend d’agosto, e il cui assassino non fu mai scoperto.

La donna quindi percepisce, nonostante timori e paure, che come si approssima questo fantomatico ritorno a Buio così sta approssimandosi anche il momento di fare definitivamente i conti con il proprio passato, affrontando i ricordi non solo della morte di Jadwiga ma di tutta un’infanzia; se riuscirà in questo intento, dato il bislacco dispiegarsi dell’azione, tra frammenti di memorie e sospetti sempre più crescenti sull’aderenza al reale di ciò che accade – o è accaduto –, starà solo al lettore deciderlo.

Buio (Carbonio Editore, 2020), dell’autrice polacca Anna Kantoch, che con questo titolo ha vinto il premio Zulawski (il massimo riconoscimento per la letteratura fantastica in Polonia), è un romanzo che si guarda bene dal dare chiari punti di riferimento al lettore, nonostante la sua buona struttura; il testo è infatti diviso in due parti – con la prima che prepara il terreno alla seconda, in cui la donna sembra tornare effettivamente a Buio –, e in entrambe le parti i capitoli alternano i ricordi d’infanzia agli eventi vissuti dalla protagonista nel presente.

Così, in sintonia con questa suddivisione di piani temporali, nei capitoli dedicati ai ricordi la donna ripensa ai momenti spesi a Buio, alle figure indecifrabili dei suoi genitori, al rapporto con Franciszek e il fratello minore Stas; ed è da quest’ultimo elemento che la protagonista tratteggia l’immagine di se stessa bambina, rivedendosi come una creatura vitale, fantasiosa, allo stesso tempo inerme e ribelle nei confronti delle costrizioni sociali a cui, per forza di cose, è stata da sempre sottoposta:

«Quell’estate comincia con l’alleanza dei maschi contro le femmine, quando Franciszek e Stas ricevono un libro sugli indiani da nostro padre. Io ne sono esclusa: sono una bambina e quindi mi regalano una bambola, che non voglio, preferisco il libro, e i miei fratelli alla fine si offrono di prestarmi il loro regalo» (pag. 39).

A partire dai ricordi la donna ridisegna anche l’ambiente di Buio, concentrandosi sull’atmosfera da «libro illustrato per bambini» che avvolge lei e i fratelli durante le loro scorribande per il bosco circostante o le strade vicine alla tenuta; scorribande che ben presto perderanno il segno dell’innocenza, come nel caso dell’uccisione di un capriolo nel bosco, portando così i fratelli a entrare in contatto con quel senso di morte che poi li accompagnerà per il resto della vita come la macchia di un peccato incancellabile.

Nei capitoli in cui si trattano gli avvenimenti nel tempo presente invece, le cose sono sin dall’inizio molto meno definite. Dopo l’arrivo della donna a Varsavia in casa del fratello, tutto ciò che accade alla protagonista sembra poco a poco tingersi di sfumature sempre più oniriche, cosicché, come già anticipato, ben presto la chiarezza strutturale del romanzo non risulta sufficiente per permettere al lettore di capire cosa è frutto di una memoria difettosa («I miei ricordi sono così volatili. Più mi sforzo di descriverli precisamente, più mi sfuggono, non trovo le parole, il significato scivola via come acqua tra le dita» pag. 68) e cosa invece è da reputarsi reale. In questo movimento convergente, i ricordi cominciano a sovrapporsi talmente tanto al presente da farci entrare in una dimensione totalmente imperniata sull’irrealtà, parola, tra l’altro, più ricorrente nel romanzo.

Dopo l’incontro con una setta di spiritisti, che convincono la donna a trovare un modo per tornare a Buio così da capire cosa è successo a Jadwiga – la quale faceva parte della stessa setta –, il definitivo salto nel mondo dell’irrealtà è sancito dal suo incontro con il padre Tadeusz, che sarebbe invece morto da tempo. Tadeusz le appare alla stessa età degli efferati fatti a Buio, ignaro di tutto, come se fosse fuoriuscito da un sogno. Sarà lui ad invitare alla tenuta la protagonista, che si presenta come Jadwiga Rathe, sostituendosi così all’attrice in quello che sarà un vero e proprio tuffo nel passato di quei giorni in cui è accaduto l’omicidio.

«L’irrealtà mi sovrasta come il velo di una sposa, ci cammino dentro, mangio il gelato e ci bevo il caffè. In questa irrealtà Tadeusz mi porge la mano per farmi attraversare il ponticello oscillante del parco, e in questa irrealtà io rispondo con un sorriso ai suoi complimenti gentili, rassicuranti. Questo è mio padre, penso, ma le sue parole mi suonano vuote, prive di qualsivoglia significato» (pag. 95)

Messo in conto il patto narrativo che si sancisce col testo all’inizio, per cui il lettore capisce che deve prendere per buono il resoconto poco affidabile della narratrice in prima persona, non risulta comunque ben chiaro il motivo specifico per cui l’Io narrante si trovi invischiato in questa dimensione d’irrealtà, e quindi a cosa ciò possa esser ricondotta: nasce in risposta alla follia in cui versa la mente della donna, magari mai diagnosticata («Ci ho provato a vivere normalmente, ma ogni volta sentivo che l’irreale non spariva, si spostava soltanto di un po’. Dio mi è testimone di quanto ci abbia provato. Non ricordare, non pensare» pg. 135)? È data dall’immersione in un sogno che non si sa bene quando sia cominciato («“Jadwiga Rathe” rispondo. L’irrealtà mi rilascia e riesco finalmente a respirare. Perché no? Mi dico mentre un sorriso monta dentro di me. Tanto è soltanto un sogno» pg. 113)?

È l’estendersi nel presente di quell’atmosfera da «libro illustrato per bambini» di cui i fratelli avevano fatto esperienza durante la loro infanzia? Forse è invece causata dall’elemento fantastico introdotto verso la fine del romanzo, quando si scopre che gli abitanti dell’area intorno a Buio, tanti anni prima, avevano avuto esperienza di visioni inquietanti, come se uno spirito malefico si fosse divertito a prender possesso del bosco contaminando la mente di chi ci viveva; di conseguenza, è possibile ipotizzare che anche la protagonista abbia subito tale contaminazione? O, visto che il capitolo comincia con «Riesco a immaginarmelo», la donna fantastica solamente su tale episodio?

Su questo il testo non sembra voler fornire una risposta definitiva; e nonostante la scelta autoriale di mischiare onirismo, fantastico, spiritismo e quant’altro sia sicuramente legittima, è altresì vero che, a un certo punto, l’interazione tra questi molteplici elementi sembra sfuggire talmente di mano che si sente forte, durante la lettura, la necessità di qualche delucidazione, una spiegazione in più a cui potersi appigliare per andare avanti in questo labirinto dall’architettura fin troppo elaborata.

Perché nel continuo affastellarsi di dubbi circa la veridicità di ciò che accade, nell’accumularsi di misteri su misteri, anche la “rivelazione finale”, così definita in seconda di copertina, sembra perdere di significato fino ad apparire più come una non-rivelazione, come un coup de théâtre svuotato anche di quelle poche risposte di cui si avrebbe bisogno per riuscire non tanto a dare una chiara interpretazione del testo – di certo è giusto che un romanzo stimoli più interpretazioni – ma almeno a dare senso a una logica narrativa che al netto di qualsivoglia esigenza autoriale risulta essere, alla luce di troppi interrogativi senza risposta, eccessivamente criptica.

Se Buio si fosse presentato come un romanzo senza uno specifico movimento narrativo da seguire (l’addio alla casa di cura, Varsavia, l’incontro con gli spiritisti, il fantomatico ritorno a Buio), e quindi solo come un flusso-fiume di ricordi privo di qualsiasi intreccio come accade, per citare un bellissimo romanzo dello stesso editore, in La civetta cieca di Sadeq Hedayatallora fin dall’inizio chi legge avrebbe potuto accettare con più serenità la totale mancanza di punti di riferimento, sottintendendo che non sarebbero stati comunque necessari per una soddisfacente comprensione del romanzo e del suo messaggio.

Tutto ciò non esclude di certo che un lettore più avvezzo a narrazioni di questo tipo non possa godere dei numerosi stimoli comunque presenti in Buio – riflessioni sul ruolo sociale della donna, sulla libertà di esprimere appieno la propria sessualità; considerazioni riguardo l’atmosfera che si viveva in Polonia poco prima della Seconda Guerra Mondiale –, e di una scrittura che, soprattutto attraverso le descrizioni di ambienti e atmosfere, sa creare immagini potenti e suggestive. Peccato che però questa non sia, alla luce di ciò che è stato detto, supportata da un impianto narrativo alla sua altezza, che avrebbe reso il tutto molto più comprensibile e, di conseguenza, ancor più apprezzabile.

Recensione di Angela Marino

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Conosci l'autore

Anna Kańtoch

(Katowice, 1976) Tra le voci più eclettiche e talentuose della letteratura polacca contemporanea, è autrice di una vasta produzione narrativa che le è valsa numerosi premi. In Italia sono stati pubblicati Buio (Carbonio, 2020) e Gli incompiuti (Moscabianca Edizioni, 2023). La primavera degli scomparsi, primo volume di una trilogia che ha avuto in patria un'accoglienza straordinaria, ha ricevuto nel 2021 il Nagroda Wielkiego Kalibru come migliore romanzo poliziesco polacco.

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