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Anno edizione: 2016
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Una scrittura che sembra fatta apposta per non mettere a proprio agio o, addirittura, per respingere. A differenza de "Il ritorno del barone Weckheim" di cui ho riconosciuto il fascino, non ho trovato qui un solo appiglio a cui arpionare il mio interesse, che regolarmente si dissolveva neanche a metà dei periodi da venti righe almeno. Se non sei Proust, è molto rischioso infilare tutte quelle subordinate e pensare pure di uscirne senza accusare un principio di anossia: inutile continuare. Caotico, artificioso e non supportato da una qualità letteraria sufficientemente alta da giustificarne l'assoluzione: terza e ultima chance "Herscht 07769".
Un tratta sulla mancanza di dialogo, ricco di significati e allusioni, metafore e allegorie dell’emotività.
Concordo in pieno con le precedenti recensioni, un romanzo affascinante e misterioso che ti cattura ti ammalia grazie anche ad uno stile, ad un linguaggio serpentesco, le cui lunghe frasi incastonate ad arte fra loro, ti rapiscono dentro un incantamento letterario magiaro. Opera in cui si avverte l'influenza arcana del Processo di Kafka, il senso del grottesco di ciascun personaggio, come una tragicommedia che scorre lungo lunghe sequenze in dissolvenza, che si ricompongono per poi decomporsi nuovamente in una vana attesa messianica che corrode le coscienze. Capolavoro
Recensioni
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Come nelle deragliatissime geografie antiumane di Ciprì e Maresco, che riemergono alla memoria anche per via dell’alchemico bianco e nero che nel 1993 Béla Tarr utilizzò nella sua trasposizione cinematografica, così nelle pagine acquitrinose di Satantango di László Krasznahorkai, il senso di un’apocalisse grottesca rende meno affezionati alla vita. La vicenda editoriale nostrana di questo romanzo straordinario è delle meno onorevoli: uscito in Ungheria nel 1985 solo nel 2016 Bompiani lo ha pubblicato in Italia – con la bellissima traduzione di Dóra Várnai – complice la fortuna che l’autore ha riscontrato negli Stati Uniti qualche anno fa. E proprio qualche anno fa giunse Melancolia della resistenza per le cure del meritorio, poi scomparso, editore Zandonai.
Nelle campagne infradiciate dalle piogge d’ottobre, in uno «stabilimento» ormai disabitato, un gruppo di «superstiti» che non si è accordato alla «fuga» generale quando i piani collettivisti sono falliti, sosta in attesa di un’epifania. «Vedrai, oggi succederà qualcosa», dice Futaki alla signora Schmidt. Nell’attesa, però, tutto va in rovina lentamente, con la stessa paziente metafisica dei ragni che tessono la loro tela su ogni oggetto della kocsma, la bettola dove sovente Futaki, il signore e la signora Schmidt, i Kráner, gli Halics, la signora Horgos, il fattore Kerekes, il preside e l’oste si ritrovano per ubriacarsi. Parlano di niente, nella cappa e nell’ebbrezza, si tradiscono, «stanno seduti in cucina, cagano nell’angolo, e ogni tanto guardano fuori dalla finestra, per spiare cosa fanno gli altri».
Tutto cambia, però, quando all’orizzonte appaiono Irimiás e Petrina, due «compari» dati per morti diciotto mesi prima. Irimiás, «mago» e dotato di una prodigiosa furbizia, è sempre stato capace di risolvere situazioni impossibili: la sua venuta è il segnale di una speranza rinnovata, il segno escatologico che la fine della sofferenza è vicina.
Schiacciati da una fine della storia, magistero tetro del post-socialismo, asserviti a un diritto di natura che è tanto sociale (tutti sono servi di qualcun altro: l’oste del fattore; il dottore del liquore, la sua palinka; Futaki della violenza di Schmidt; Irimiás e Petrina dal misterioso Capitano) quanto cosmico («Quando crediamo di esserci appena liberati, in realtà abbiamo solo aggiustato i lucchetti») i personaggi di Satantango vivono nella zona di faglia fra un tempo premoderno – nel quale si cerca la rigenerazione dell’illo tempore attraverso l’immersione nel caos, nell’orgia, nelle tenebre e nel diluvio – e l’avvento messianico di Irimiás, capace di spezzare «l’eternità dell’assoggettamento». Nel vuoto abissale che si spalanca tra il mito dell’eterno ritorno e la promessa evangelica di una resurrezione («urlò alle facce sorprese “RESURREZIONE!”, quando era ormai sicura di aver trovato la parola senza dubbio più adatta»), Kraszahorkai getta il suo sguardo.
Anche la ripartizione dei capitoli, in fondo, mima questa simmetria: a una prima parte arcaica ne sussegue una seconda messianica, senza che questa opposizione binomiale conosca una terza strada, una via di uscita, nonostante che le sia consacrato il sacrificio di un’innocente.
Per questi pastori erranti dell’Ungheria non c’è redenzione, né resurrezione, solo zone d’indicibile – come quelle dove esplodono le incredibili scene di levitazione e di spettri –, aree lontane anche spazialmente, dove la ragione umana arretra con scetticismo, dove il mistero si esibisce, ma niente cambia. Il carnevale parodistico di Kraszahorkai – che proseguirà nel successivo romanzo Melancolia della resistenza, incentrato su un circo – è un’immane tragedia che proprio recuperando una fiducia nelle forme e nelle strutture letterarie evita un generico scetticismo postmodernista e raggiunge luoghi di silenzio e di apnea dove non può abitare alcun umano. Al più qualche ragno.
Recensione di Filippo Polenchi.
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