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Anno edizione: 2019
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«La banalità contemporanea non è tutta nei social network, né è banale tutto ciò che è nei social network: essi costituiscono però senza dubbio un buon campo per la sua osservazione.»
«Con le armi delle semiotica, Stefano Bartezzaghi indaga su un'ossessione contemporanea, alimentata dai social network: essere originali a tutti i costi» - Il Venerdì
La banalità è il nostro nuovo demone. È da quest'ultima che vogliamo rifuggire, come dalla noia, ma è questa stessa fuga a renderci sempre più banali (e noiosi, e annoiati). Per i luoghi comuni proviamo esplicite repulsioni e recondite attrazioni, la nostra idea di successo è che tutti notino come siamo bravi a svincolarci, almeno momentaneamente, da essi. In queste pagine Bartezzaghi si arrischia a seguire due convinzioni. La prima è che abbiamo sbagliato spauracchio e che convenga invece cercare di «avere un buon rapporto» (come oggi si dice) con la banalità, nostra e altrui. Come accade con le persone, per «avere un buon rapporto» con qualcuno occorre guardarlo in faccia, conoscerlo, rivolgersi a lui con schiettezza. Dobbiamo farci amica la banalità. La seconda convinzione è che i social network oggi sono un ambiente particolarmente adatto a farcela guardare in faccia e a conoscerla.
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Si tratta di un libro splendido ma davvero complesso, che parte da un tweet di Papa Bergoglio per inabissarsi nel meraviglioso oceano della lingua italiana e delle sue radici, latine e greche sopra a tutte. La profonda conoscenza del linguaggio e lo sconfinato vocabolario di Bartezzaghi lo portano a scrivere un testo da leggere con grande attenzione per poterlo apprezzare a fondo. Meraviglioso, educativo, ma per nulla rilassante. Le 4 stelle solo perché, come ho titolato questa recensione, il libro NON è per tutti. E, a mio modesto avviso, un libro così bello, che tratta un argomento così importante, dovrebbe essere assolutamente fruibile da tutti...
Mi pare solo il minimo che Stefano Bartezzaghi, dopo avere scritto libri sulla creatività, guardi l'altra faccia della medaglia: la banalità. In realtà questo libro non parla solo di banalità, ma più in generale cerca di dare un'idea di come la banalità sia spesso nelle orecchie di chi la ascolta. Per i miei gusti c'è un po' troppa semiotica - il Bartezzaghi Vero Saggista può anche essere un po' troppo pesante - ma il primo capitolo "Su bucce di banale", il quinto "Banal Network" che guarda alla banalità nei social network e il sesto "Per un'Enciclopedia di luoghi comuni III" meritano sicuramente l'acquisto.
Bartezzaghi è così, sapevo in cosa stavo per imbattermi prima ancora di aver preso in mano il libro. Buona lettura, particolareggiata, spesso forse troppo divagante, ma comunque utile. Spunti ottimi e ritmo interessante. È pur sempre un "mattone" semiologico a tratti indigeribile anche per semplici appasionati come me. Astenersi dunque tutti i poco motivati.
Recensioni
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Straniamenti sul banale
di Giacomo Festi
I lettori di Palomar forse ricorderanno l’episodio dedicato a una formaggeria francese, in cui il nostro protagonista, dopo aver trasfigurato il luogo in un museo enciclopedico, pronto a raccogliere la sfida cognitiva di catalogare tutte quelle forme articolate di formaggi (le texture, le morfologie, i sapori, i modi di preparazione), con tanto di appunti, rimane impreparato al subitaneo richiamo della commessa, quando il turno è il suo. All’estensione espansiva dei pensieri in cerca di organizzazione (un vasto sapere enciclopedico, da combinare al carattere precario di un gusto incorporato, si profilava all’orizzonte di una curiosità divorante) si oppone il momento intensivo di un ruolo, quello di consumatore, da interpretare lì per lì, nel teatro fin troppo sociale del negozio, in un frangente che coglie alla sprovvista e rende impossibile mantenere i tempi dilatati del ragionare. Ecco che appare il risucchio del banale come strategia di sopravvivenza: si ordina qualcosa di scontato. Il banale ci attende come un “ripiego”, ci suggerisce Palomar con la sua acuta lucidità, “come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d'incertezza per riafferrarlo in loro balìa”. Si ricade nel banale quando la complessità prefigurata non sa essere gestita e l’ordinario scontato si fa apparenza protettiva, involucro di relazioni de-problematizzate: il default che segnala una mancanza di pensiero, in ritirata. Il legame tragico e farsesco di banalità, consumo e società di massa è ben presente a Calvino.
Di un’altra banalità, più propriamente linguistica, ci racconta invece l’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi, Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social media, edito da Bompiani (2019). Nei sei capitoli del libro, dall’andamento programmaticamente rapsodico, l’autore accosta una dimensione verticale, genealogica del banale, a partire dalla nascita moderna e francese del termine, a un’osservazione orizzontale del contemporaneo, attraverso una sorta di fenomenologia del banale e del luogo comune, tra letteratura alta e piattaforme social, sulla scia del suo maestro ispiratore, Umberto Eco. Proust e Facebook, infine, trovano qualcosa di insospettatamente comune. L’erudito approfondimento semantico del banale lo vede contrapposto significativamente al “distinto” in un approccio che avvicina senz’altro l’autore alla critica letteraria. Si tratta in primis di vagliare, come un critico, il carattere più o meno banale di espressioni verbali, con una postura interessata a categorizzare i fatti di linguaggio, ben sapendo, come per il kitsch, come il giudizio sia dipendente da una costitutiva variabile temporale. Il “banale” di oggi è il “distinto” di ieri, in un circolo di trasformazioni che rende inutile svilire il banale stesso o proiettarlo in uno spazio del temibile da evitare ad ogni costo. La modernità è fatta di paradossi e la lingua, rispetto alla banalità dell’idiomatico, funziona in modo analogo al “sistema moda” così ben caratterizzato a inizio 900 da George Simmel: la ricerca di distintività ha bisogno di un fondo di socializzazione per essere riconosciuta. Il paradosso è quindi la convivenza di singolarità e imitazione, di individualizzazione e collettivizzazione delle forme. La semiotica dei trend (Basso Fossali) ne aveva svelato da tempo il meccanismo tensivo: la distintività è tale fin quando garantisce un’intensità percepibile, marcata, della propria forma inusuale, a fronte di una diffusione ancora circoscritta. Al crescere dell’uso e dell’assunzione di quelle stesse forme, la percezione di una distintività decresce, fino a un effetto riflusso nel momento in cui si fa scelta non marcata, banale appunto.
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